Dire che nel corso del tempo un paese deve aumentare la sua spesa sanitaria o la sua spesa militare in rapporto al Pil non ha alcun senso.
Sarebbe come dire che se un individuo oggi guadagna 100 euro, e spende 6 euro per curarsi e 6 euro per difendersi, se l’anno successivo guadagna 200 euro, allora deve spendere almeno 12 euro per curarsi e 12 euro per difendersi.
Altrimenti, anche se ne spende 11 (rispetto ai 6 dell’anno scorso) vuol dire che sta trascurando la sua salute o la sua capacità di difesa.
Ma non ha senso: deve aumentare il budget dedicato alla cura se si ammala, o se si infortuna. Non per il semplice fatto di guadagnare di più.
E allo stesso tempo, deve spendere di più per difendersi se crescono le minacce esterne. Non per il semplice fatto di essere più ricco.
(Semmai la spesa deve aggiustarsi all’inflazione; ma non è chiarissimo perché debba agganciarsi al Pil reale).
Questo ragionamento non vale, ad esempio, per la pressione fiscale o per tutte quelle frazioni in cui il denominatore influenza il numeratore.
Se il Pil sale, le entrate dello Stato salgono.
Se il Pil scende, le entrate dello Stato scendono.
Ecco perché non si guarda solo alle entrate dello Stato, ma al rapporto tra queste e il Pil (e lo stesso vale per il deficit, ecc).
Sulla spesa militare, la soluzione sarebbe facile:
1) stimare quanto costa – complessivamente e in termini assoluti (cioè in euro)- costruire una difesa comune a livello europeo: che necessità ci sono, che cosa deve essere acquistato, quanto costa.
2) prendere quella cifra e ripartirla (secondo la popolazione o comunque un criterio dimensionale) tra tutti i paesi europei interessati a costruire una difesa comune.
Si eviterebbe così questo penoso balletto del “2% o 5% del Pil in difesa”, con tutti i trucchi e le manipolazioni contabili che abbiamo smascherato nel question time di qualche giorno fa al ministro Guido Crosetto e di cui probabilmente parleremo ancora per anni.