Lo spazio per un’offerta politica riformista esiste, ma non nel Partito democratico

di Luigi Marattin

Il governo Draghi sta scomponendo il sistema dei partiti italiani, e molto probabilmente riuscirà a restituire un quadro di stabilità che in Italia manca dalla Prima repubblica. Ciò che devono fare i liberal-democratici è capire che esiste un vuoto tra i sovranismi e la sinistra ideologica: per occuparlo però bisogna mettersi insieme e creare una casa nuova.

Sono (siamo) in tanti a pensare che l’avvento del governo Draghi abbia anche la funzione di scomporre e ricomporre, dandogli finalmente stabilità, il quadro dell’offerta politica italiana. Nel tentativo di conferirgli quella stabilità di cui non ha mai goduto, quantomeno dalla fine della Prima repubblica, e la cui assenza si è rivelata particolarmente grave nell’ultimo decennio.

Per avviare questo ragionamento, mi faccio una domanda: dove devono collocarsi i liberal-democratici? Coloro, cioè, che pensano che dalla globalizzazione sia nato un mondo che non bisogna né rinnegare (come fanno i nazional-sovranisti) né dal quale bisogna difendersi (come fanno i socialisti-movimentisti), ma che bisogna sfruttare per produrre reddito e distribuire opportunità?

La prima risposta che viene fornita è: nel partito, nato ormai quasi quindici anni fa, che aveva l’esplicita ambizione di unificare tutti i riformismi dello spettro politico, ovvero il Partito democratico. Nonostante in tale novero fossero ricompresi anche il riformismo cattolico e quello ambientalista, ci si riferiva sostanzialmente ai due filoni culturali principali, di cui – specialmente dopo la fine della Guerra Fredda – maggiormente si avvertiva il bisogno di una ricomposizione in un soggetto unitario: il riformismo di matrice socialdemocratica e quello di matrice liberaldemocratica. L’ambizione del Partito democratico, perfettamente incarnata dal suo primo segretario nel 2007 (Walter Veltroni) e dall’autore del discorso del Lingotto che tenne a battesimo quel processo culturale (Enrico Morando) era creare un bipolarismo-praticamente-bipartitismochiaro e maturo, con i riformisti progressisti da un parte e i conservatori dall’altra.

Ci tengo molto a precisare di avere molto rispetto per il Partito Democratico, partito nel quale ho ancora molti amici e che ho contribuito a fondare, ma dal quale ho scelto di uscire esattamente due anni fa, proprio per le ragioni che sto esponendo in questa sede. Ma credo che un dibattito serio sui percorsi di organizzazione politica del passato e soprattutto del futuro valga di più del naturale fastidio che molti proveranno sentendo addirittura un renziano del 2% permettersi – ohibò, come osa – di esprimere un giudizio su un partito del 18%. Diamo quindi per lette le reazioni di pancia (“e allora Italia viva?”), e proviamo a ragionare di politica. Un lusso, si spera, la cui fruibilità è ancora illimitata. E ognuno esercita come può e come sa, senza nessuna altra ambizione se non contribuire al dibattito con la propria opinione.

Io credo che il progetto di unire i riformismi in un unico partito sia fallito. Per due motivi: uno contingente e uno strutturale.

Il motivo contingente si è verificato nell’arco degli ultimi due anni, ed è l’abbraccio con il Movimento Cinque Stelle: prima sognato, poi sussurrato, poi esplicitamente evocato e infine sugellato dal patto Letta-Bettini-Conte, che ha avuto la sua “foto di Vasto” con l’immagine dell’ex-premier che cantava Bella Ciao alla festa dell’Unità. O forse ancor prima, con i manifesti giganti “o Conte o elezioni!” che il Pd produceva in serie durante la crisi dell’esecutivo giallorosso nell’inverno scorso, nel bel mezzo del tentativo di creare le condizioni politiche per portare le energie migliori del Paese a Palazzo Chigi. 

A meno di non voler tentare l’ardita impresa di inserire la cultura politica del Movimento 5 stelle nell’elenco dei riformismi che il Partito democratico voleva unificare, ne deriva che il progetto politico originario ne risulta irrimediabilmente snaturato, a vantaggio di uno diverso, a cui nei primi giorni del governo Draghi ci si riferiva con il nome Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (Pd-Leu-M5S). Si tratta di un esito che non sembra unanime nel Pd, e che occasionalmente sembra essere avversato – difficile però capire con quale leadership e quale strategia – da una pattuglia di riformisti veri: ma su questa soglia mi fermo perché, qui si, si tratterebbe di un “mettere il naso in casa d’altri”, che sarebbe oltremodo indelicato e inopportuno.

Il motivo strutturale è più complesso, e attiene al fallimento della stessa idea di grande partito contendibile. L’esperienza estera dei grandi partiti a vocazione maggioritaria dimostra che è certamente possibile avere al proprio interno due o più impostazioni politico-culturali diverse, che anzi sono spesso fattore di arricchimento e maggiore capacità di attrazione. Prendiamo i due esempi più lampanti: nel Labour Party convivono le impostazioni più radicali à-la-Corbyn e quelle più liberali à-la-Blair; il Partito Democratico americano vive continuamente di un confronto tra le posizioni radicali di Bernie Sanders e di Alexandra Ocasio-Cortez e le impostazioni più centriste di Obama e Clinton.

A ben vedere, la condizione per la sostenibilità di queste esperienze è una sola: che l’esito del momento di contendibilità (il congresso o le primarie) determini una situazione in cui chi vince ha la piena agibilità di determinare la linea politica del partito, e chi perde vede pienamente riconosciuto il diritto di partecipazione negli organismi dirigenti e nelle istituzioni, ma senza volontà/possibilità di mettere in discussione esternamente la linea politico-programmatica del partito, fino ovviamente al prossimo momento di contendibilità.

La fonte di legittimità della linea politica, in poche parole, è il momento in cui viene consultata la constituency del partito (comunque definita), e la durata di tale legittimità è prefissata, o comunque viene anticipata solo in presenza di gravi sconfitte elettorali in competizioni nazionali. È in questo modo, e solo in questo modo, che funzionano i grandi partiti a vocazione maggioritaria. Altrimenti ne deriva un’immagine di confusione e scarsa coesione con cui è assolutamente impossibile convincere una fetta… maggioritaria dell’opinione pubblica.

Credo attenga alla categoria dei fatti (e non a quella delle opinioni) il notare come questa condizione non solo non si sia mai verificata nel caso italiano, ma che sia ormai pura fantascienza anche solo sperare – stando così le cose – che possa anche solo essere sufficientemente approssimata.

La prassi del partito che voleva unificare i riformismi, richiamandosi proprio alle esperienze maggioritarie sopra richiamate, sembra infatti essere ben altra. Un minuto dopo la conclusione del momento in cui le linee politiche venivano sottoposte al consenso della constituency (e cioè le primarie, che si vollero fin dall’inizio non limitate agli iscritti ma estese ai potenziali elettori), la parte soccombente ha iniziato un sistematico e coerente cammino di demolizione della leadership eletta e della sua linea politica, identificandoli come avversari principali di una tradizione che invece andava difesa a tutti i costi.

Il cammino di delegittimazione e indebolimento – condotto regolarmente sia all’interno del partito che sui mezzi di informazione pubblica – viene poi coronato con l’inevitabile richiesta di “congresso anticipato” non appena il partito perde una qualsiasi elezione locale, variando con notevole spregiudicatezza i criteri utilizzati per la valutazione della “vittoria” o “sconfitta” e comunque non prendendo in nessuna considerazione le eventuali specificità locali. E poiché in Italia si vota ogni anno, non bisogna mai aspettare molto.

Questo film, con differenti intensità dovute perlopiù alle diverse contingenze politiche, è andato in onda dopo l’elezione di ciascuno dei segretari del Pd. Con particolare veemenza quando a prevalere alle primarie era stata la linea “liberal-democratica” (Veltroni 2007, Renzi 2013 e Renzi 2017) ma evidentemente ben presente anche durante la segreteria Zingaretti (2019-2021), visto che egli ha preferito dimettersi anzitempo lanciando al contempo dure accuse alle minoranze interne e alla modalità di funzionamento del partito. Con Bersani (2012) fu una storia a sé, visto che la clamorosa non-vittoria alle politiche del 2013 e il forte mutamento del quadro politico nazionale provocarono a gran voce un nuovo momento di contendibilità del partito, vinto poi a mani basse da Matteo Renzi.

A mio parere dunque, quindici anni di storia politica hanno dimostrato che la condizione necessaria (ma certamente non sufficiente) per la sostenibilità di un partito in cui convivano diversi approcci riformisti, in Italia non riusciamo a rispettarla. 

Ma c’è di più. Tale condizione – di per sé sufficiente a determinare il fallimento – diviene ancora più grave in caso di progressiva divaricazione politico-culturale tra i “riformismi” che si intendeva unificare. Nel corso di questi quindici anni, infatti, l’approccio socialdemocratico e quello liberaldemocratico hanno visto aumentare inesorabilmente le loro sostanziali differenze, sollevando più di un dubbio sulla loro effettiva conciliabilità. Benché sarebbe interessante indagare i motivi di questo processo (che probabilmente risiedono nella polarizzazione delle offerte politiche mondiali a seguito di questo primo turbolentissimo ventennio del nuovo secolo, e nell’affermarsi definitivo della globalizzazione), questo esula dagli scopi immediati di questa riflessione.

Ciò che conta è che ad oggi, in Italia, gli esponenti di impostazione socialdemocratica e quelli di impostazione liberaldemocratica la pensano in modo radicalmente diverso praticamente su tutto.

I primi si concentrano sulla redistribuzione di risorse, e non sulla loro produzione. I secondi pensano che occorra concentrarsi sulla produzione di reddito e sulla effettiva redistribuzione di opportunità.

I primi pongono l’accento sul ruolo della tassazione patrimoniale e sulla necessità di rendere ancor più progressiva l’imposta sul reddito. I secondi pensano che vada efficientata la spesa pubblica (che i primi non sono disposti a toccare in nessun modo) per finanziare una massiccia riduzione del carico fiscale sui fattori produttivi.

I primi vogliono evitare licenziamenti e delocalizzazioni vietandoli per legge. I secondi, considerando controproducente questa mossa, mirano piuttosto a migliorare le condizioni di competitività e attrattività dei nostri sistemi territoriali. Per incentivare a assumere e investire, piuttosto che illudersi di poter vietare di licenziare o delocalizzare.

I primi considerano l’incremento di risorse pubbliche come la condizione necessaria e sufficiente per il miglioramento dei servizi pubblici. I secondi la considerano solo necessaria: servono anche cambiamenti strutturali (ad esempio nella scuola: differenziazione carriere docenti, valutazione meritocratica, ecc). 

I primi etichettano come “neoliberismo sfrenato” ogni riferimento a politiche di liberalizzazione e di maggiore concorrenza. I secondi le considerano pilastri della democrazia economica e motore dell’innovazione.

I primi hanno una fiducia cieca, piena e incondizionata nell’intervento pubblico, da Ilva ad Alitalia passando per l’immancabile Cassa Depositi e Prestiti; e una speculare sfiducia nel funzionamento dei mercati. I secondi sono meno ideologici: hanno capito che Stato e mercato non sono la trasposizione economica dell’angioletto e del diavoletto sulle spalle, ma opzioni diverse – entrambe con pregi e difetti – che a seconda delle circostanze e delle condizioni possono essere una più desiderabile dell’altra. O magari sapientemente combinate.

Potrei continuare, probabilmente per ogni altra dimensione su cui si esplica il dibattito politico in questo tempo. Ma la sostanza è chiara: tra riformismo socialdemocratico e riformismo liberaldemocratico sussistono ormai divergenze nette sia sull’atteggiamento da avere nei confronti del mercato e della globalizzazione, sia sulle policies quotidiane.

E quando le differenze sono così marcate, diventa ancor più complicato accettare le regole di convivenza anche dopo una sconfitta congressuale.

Coloro ai quali è stato rivolto questo ragionamento, perlomeno nella mia esperienza, non lo hanno mai contestato nelle sue premesse o nel suo svolgimento logico. Ma hanno sempre risposto con un solo argomento: “E vabbè, ma non puoi mica andare con Salvini e Meloni!”.

Questa considerazione – che, per la cronaca, per quanto mi riguarda registra un sonoro “certo che no” – è comunque conseguenza di due gravi fraintendimenti.

Il primo, en passant, è quello di pensare che non si è parte dello stesso partito, non è possibile comunque trovarsi (prima o dopo il voto) parte di una stessa alleanza, se il sistema dovesse tornare a essere di tipo proporzionale. Un esito, anch’esso, ben lontano dai nostri sogni giovanili di democrazie compiutamente maggioritarie, ma tant’è. 

Ma è il secondo fraintendimento ad essere più rilevante. Una frase di quel genere (“mica puoi andare con la destra!”) assume il bipolarismo come dato di fatto, esogenamente determinato. Il classico “o di qua o di là” in cui tanti abbiamo creduto per decenni ma che – per le ragioni che ho provato finora a spiegare – credo non rappresenti più la realtà politica di questo paese, e non solo di questo paese.

Nella società italiana e non solo, infatti, sembrano convivere tre diverse domande politiche: una chiede protezione e redistribuzione, un’altra chiede chiusura e autodeterminazione su basi nazionali, e un’altra chiede di poter essere accompagnata nel nuovo mondo globalizzato e di poterlo vivere da protagonista sulla base dell’impegno individuale, nel rispetto della solidarietà e coesione sociale.

Le prime due domande hanno, in giro per il mondo, offerte politiche molto chiare. La prima è quella di Alexandra Ocasio-Cortez – e del suo bel vestito “Tax the rich” – di Melenchon, di Corbyn e ampi settori dell’ambientalismo “ideologico” contro cui si è scagliato recentemente il ministro Cingolani. La seconda è quella di Trump, Farage, Orban, Bolsonaro.

Le sezioni italiane di entrambe queste offerte politiche sono facili da individuare: sono sparse in almeno quattro degli esistenti partiti.

Quello che finora è mancato, è la costruzione – in Italia e all’estero – della terza offerta politica. Quella di chi non si rassegna a scegliere tra “tax the rich” e “prima gli italiani” (o ungheresi, o brasiliani, o americani, a seconda di dove ci si trovi”.

O se preferite, tra Conte/Bettini e Salvini/Meloni.

Al di là delle tante dichiarazioni di intenti, questa compresa, il vero punto è capire se esiste o esisterà un rapporto tra l’esperienza del governo Draghi e la formazione di una siffatta offerta politica.

Questo, e molto altro, lo vedremo nei prossimi mesi

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