Il ruolo sociale di non risolvere i problemi

In un editoriale sul Corriere della Sera oggi – tra l’altro ricco di spunti molto interessanti – Ernesto Galli della Loggia fa la seguente affermazione:

“da almeno 10 anni in Parlamento nessuno ha fatto una proposta su che cosa debba essere la scuola, i suoi contenuti, le sue modalità; nessuno è mai intervenuto a discuterne davvero i risultati”.

In realtà non è esattamente così.

Nel 2015 fu presentata e persino approvata una riforma – “La Buona Scuola” – che iniziava ad affrontare i nodi strutturali: valutazione dei docenti, autonomia reale, differenziazione retributiva, alternanza scuola-lavoro, risoluzione strutturale del precariato. Molto probabilmente non era affatto la riforma perfetta (quale, del resto, lo è) ma era il primo tentativo di emanciparsi dal pluridecennale mantra che, quando si parla di scuola, concepisce un’unica ricetta: “tu mettici più soldi, e poi il resto si aggiusta da solo”.

Quella riforma fu sottoposta ad un assalto mediatico senza precedenti, da parte innanzitutto dei (tanti) conservatori del mondo della scuola, ai quali strizzarono prontamente l’occhio partiti e giornali, desiderosi di azzoppare chi – l’allora premier Matteo Renzi- ebbe il coraggio di provarci.

L’assalto ebbe pieno successo: oggi della Buona Scuola non rimane praticamente nulla.

E gli editorialisti possono tornare a scrivere, caustici, di come la politica ignori le condizioni drammatiche in cui versa la scuola italiana.

L’Italia è il paese in cui, qualsiasi cosa succeda, è meglio che i problemi non vengano mai veramente risolti, e neanche che ci si provi troppo seriamente.

Altrimenti in tanti, troppi, non saprebbero più di cosa parlare.

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