Obbligo di approfondire, per un politico. Perlomeno leggendo un buon quotidiano

Post sulla prossima, ennesima, puntata di una “serie di (in)successo”.

Dalla prossima settimana, con l’inizio dell’esame in commissione bilancio alla Camera del Dl Sostegni-bis, inizierete a sentir parlare della “assoluta necessità di approvare una norma per salvare i comuni”.

Si tratta, come già discusso in alcune occasioni tra cui con un bel podcast con Oscar Giannino , di una “norma interpretativa” che per la sesta (!!) volta contraddirebbe le sentenze della Corte Costituzionale.

Vale a dire, si vorrebbe consentire ai comuni in difficoltà di spalmare il disavanzo su 30 anni. Cioè sulle seguenti 6 “consiliature”, i seguenti 6 sindaci e le prossime due generazioni. La Corte ha già detto numerose volte che non si può fare. Ma tanti colleghi insistono nel dire che “è l’unico modo per salvare i comuni”.

Ma è davvero così? E soprattutto, si tratterebbe davvero della soluzione al problema?

Ci viene in aiuto oggi un ottimo approfondimento de Il Sole 24 Ore curato da Gianni Trovati. Ed è appunto l’articolo che ogni parlamentare dovrebbe leggersi bene, prima di affrontare il tema nei prossimi giorni.

L’articolo riporta come la mappa del migliaio di comuni (su 7903 totali) in difficoltà finanziaria coincida perfettamente con i comuni che hanno gravi difficoltà nel riscuotere le entrate di loro competenza. Vediamo qualche dato, nei comuni maggiori, relativo al 2019 .

Fatto 100 le entrate extra-tributarie messe a bilancio (tariffe, multe, canoni) – la cui riscossione è responsabilità esclusiva dei comuni – Napoli ne riscuote 46, Reggio Calabria 16, Palermo 24. Ma poiché a bilancio c’è 100 di entrata, i comuni mettono 100 di spesa.

E questa si trasforma in 100 euro di impegni di competenza, diversamente da ciò che accade per le entrate (che vengono accertate per 46, o 16, o 24). Da qui l’accumularsi di disavanzi (la cui definizione e’ spesa > entrata), a cui la politica – TUTTA LA POLITICA – ha sempre offerto una e una sola soluzione: metterli sotto il tappeto, consentendo di spalmarli in 30 anni. Alla scadenza dei quali, sono sicuro, ne sarebbero seguiti altri 30 o forse 100.

A mettere un freno a tutto ciò è stata la Corte Costituzionale,ricordando come un comportamento del genere violi numerosi principi della nostra Carta fondamentale, a cominciare dall’’equità intergenerazionale.

Ma come se ne può uscire? Se la causa dei dissesti è la scarsa riscossione, occorre risolvere il problema della riscossione.

Ma come? Il massimo che la politica ha fatto – nel 2019 – è stato introdurre a partire dal 1 gennaio 2020 anche a livello locale una pratica che a livello nazionale vale da decenni: l’accertamento esecutivo. Vale a dire, l’avviso di accertamento conteneva anche direttamente l’intimazione di pagamento. In pratica, si saltava un passaggio.

Ma, causa pandemia, neanche questo timido step (la cui introduzione fu accompagnata da immancabili grida al “fisco Dracula!”) è in pratica mai entrato in vigore.

La soluzione allora non può che essere più radicale. Alcuni di noi propongono meccanismi automatici di riscossione, altri possono avere altre idee.

Si può discutere tutto. Ma ad una condizione: guardare in faccia la realtà, avere il coraggio di fare le scelte che servono, e la responsabilità di evitare l’ennesima “palla in tribuna”.

Che un giorno o l’altro, non vorrei si trascurasse questo aspetto, forse farà anche un po’ arrabbiare i rimanenti 7000 comuni che si fanno in quattro per riscuotere le entrate e rispettare le regole, e le decine di milioni di cittadini che pagano regolarmente non solo quanto dovuto, ma anche – sotto forma di minori servizi o maggiori tasse – la furbizia di tanti altri.

La politica, non fosse altro per banali calcoli di consenso, dovrebbe ogni tanto preoccuparsi anche di loro.

Anche quando si tratta di finanza degli enti locali.

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