Riformismo e populismo, 10 anni dopo: il caso dell’“acqua pubblica”

Esattamente 10 anni fa eravamo in campagna elettorale per i cosiddetti “referendum per l’acqua pubblica”, che furono approvati nel giugno di quell’anno a stragrande maggioranza.

I due quesiti, come ricordato più volte in questi anni, all’atto pratico non avevano nulla a che vedere con la tipologia di gestione del servizio idrico integrato, ne’ – figuriamoci – sulla “proprietà dell’acqua”.

Ma quel che conta è che quella campagna elettorale fu condotta all’insegna di slogan ideologici e di quello che da lì a qualche anno avremmo iniziato a chiamare “populismo”: la superiorità della gestione pubblica a tutti i costi, il rifiuto della logica industriale nei servizi pubblici e la supremazia del messaggio “pubblicitario” rispetto alla realtà – inevitabilmente più complessa – dei fatti.

A guidare quella campagna c’erano il neonato M5S e il Pd, che l’allora segretario Bersani decise di schierare compatto, pur senza aver concesso l’opportunità di una discussione di merito all’interno del partito.

Poche le voci di dissenso, tra cui l’ancora poco conosciuto sindaco di Firenze (e il totalmente sconosciuto sottoscritto), che furono immediatamente bollati come “rompiscatole” e coloro che “minavano l’unità del partito”.

Le voci di dissenso si basavano sul fatto che una questione seria come il modo, i tempi e i costi con cui l’acqua arriva tutti i giorni nelle case degli italiani non poteva essere trattata facendo prevalere lo slogan sulla realtà: il servizio idrico aveva bisogno di grandi investimenti e di gestione industriale, e doveva essere svolto dall’operatore più efficiente, pubblico o privato che fosse. La primazia dell’interesse pubblico – cruciale quando si parla di un bene primario come l’acqua – doveva essere garantita tramite un’efficiente attività di regolamentazione, saldamente in mano pubblica: la decisione del livello di investimenti, la fissazione della tariffa e la garanzia di gare pubbliche che assicurassero contendibilita’ ed efficienza. Compiti che richiedono un potere pubblico più forte, altroché più debole.

Quei due referendum passarono con più del 90% del consenso popolare; ma – come ricordato, e al di là delle menzogne che ancora oggi periodicamente saltano fuori – non riguardavano affatto la natura della gestione, ma solo l’abolizione dell’obbligo di gara e alcuni aspetti tecnici sulla remunerazione del capitale investito.

Come risultato, però, le gestioni pubbliche, che già allora erano stragrande maggioranza, hanno continuato a proliferare indisturbate, si è perpetuato il conflitto di interesse dei sindaci (che con una mano fissano le tariffe ai cittadini e con l’altra incassano i dividendi delle aziende pubbliche) e la legge Galli del 1994 ha continuato ad essere inattuata in tante parti del paese.

Il risultato di questo assetto ci viene ricordato oggi, alla vigilia della Giornata mondiale dell’Acqua: in Italia su ogni 100 litri di acqua che scorrono nelle tubature, 43,7 vanno perduti (un dato persino un po’ più basso rispetto al passato, ma se ci pensate davvero terrificante).

Nel dibattito pubblico ciclicamente viene riproposto di “tornare allo spirito dei referendum del 2011” e approvare una legge che impone la totalità della gestire pubblica; in Parlamento è stata anche presentata una proposta di legge, a firma M5S.

In questi giorni va molto di moda chiedersi ma in fondo che cosa diavolo significhi davvero dover scegliere tra “populismo” e “riformismo”.

Ecco, la (brutta) vicenda dell’ “acqua pubblica” ci fornisce un esempio.
Uno dei tanti.

Lascia un commento