L’ipocrisia delle “marchette”

Stamattina sul Corriere della Sera il professor Sabino Cassese fa un durissimo attacco alle “micro-misure” contenute nella Legge di Bilancio.

Mi onora di ben due citazioni, relative al mio articolo su Il Foglio del 16 dicembre.

In quell’articolo parlavo di come la tendenza a commissariare o aggirare la politica sia esclusivamente colpa della classe politica stessa, che da molto tempo a questa parte ha smesso completamente di prestare attenzione alla selezione della qualità dei suoi membri.

Come risultato, l’attività politica nelle assemblee elettive si riduce a poco più che la rappresentazione di piccoli interessi particolari o territoriali, come – avevo anticipato – avrebbe dimostrato la destinazione delle risorse assegnate al Parlamento nell’ambito della sessione di bilancio (su cui poi tanti commentatori, per finire con Cassese oggi, si sarebbero concentrati).

Il problema che ho segnalato non ha soluzione nel breve periodo, e ne ha solo una nel medio-lungo: che le forze politiche ritornino alla prassi di formare, selezionare e ricambiare con cura la propria classe dirigente. Difficile, in un Parlamento dominato da chi si fa orgogliosamente vanto di aver usato il “prendere a caso dalla strada” come unico meccanismo di selezione.

Ma proviamo a guardare il problema con un po’ più di attenzione. Con due considerazioni e una proposta concreta.

1) innanzitutto, circoscriviamo il problema. Come sempre, il dibattito pubblico italiano procede “a pendolo”: da un estremo all’altro. Dal non curarsi affatto del problema, all’etichettare come “marchetta” ogni intervento che costi meno di 10 miliardi e che non sia una gigantesca riforma strutturale.

Molti interventi dai costi contenuti sono interventi di politica economica. Su cui, come sempre, si può concordare o no. Si può credere che siano efficaci o no. Ma che non sono “marchette”. Sono interventi dal costo contenuto, ideati per risolvere un problema.

Il credito di imposta sulle minusvalenze dei Pir sottoscritti nel 2021 non e’ una “marchetta”: è un modo per provare a incentivare l’unico strumento esistente per convogliare il risparmio privato verso i capitali delle imprese. Un problema di cui tutti si riempiono la bocca. Si potrà dire che non è lo strumento giusto, per carità. Ma non e’ l’attribuzione di soldi ai comuni sotto i 500 abitanti di una particolare provincia, per fare un esempio a caso. 

2) l’anomalia invece risiede nelle misure “localistiche e microsettoriali” che – pensate un po’ – sarebbero già vietate nella legge di bilancio. Ma nell’ipocrisia istituzionale che ormai domina incontrastata, tale divieto viene semplicemente non applicato.

Qui ci sono gli interventi che con maggiore enfasi vengono sempre definiti “marchette” da tutti, meno che da quelli che a turno li ricevono. Perché si sa, sono “marchette” solo quelle che fanno gli altri.

Non sempre lo sono, sia chiaro: destinare poche centinaia di migliaia di euro per riparare il tetto di un convento – oltre ad essere un qualcosa per cui il parlamentare X avrà credito nel suo territorio – è anche una cosa giusta. In tanti altri casi, lo sono meno. Ma tant’è, la legge di bilancio la approva il Parlamento. E se non contiene queste “marchette”, i parlamentari di maggioranza non la votano, e quelli di opposizione si avvalgono degli strumenti previsti dal regolamento (ostruzionismo) per non farla approvare.

Nell’attesa quindi che i meccanismi di formazione, selezione e ricambio della classe politica risolvano alla radice il problema, una soluzione temporanea potrebbe essere la seguente.

Il divieto di misure settoriali e localistiche tornerebbe ad applicarsi in maniera cogente. Se necessario scrivendolo persino in Costituzione.

Parallelamente, la legge di bilancio ogni anno prevede un fondo specificatamente dedicato a interventi sul territorio, che viene poi diviso con un decreto legge in gennaio (o addirittura con un Dpcm, qualora l’accordo politico sia chiuso prima).

Queste soluzioni non sono certo nuove: parliamo in un caso della vecchia “legge mancia”, che introdusse Tremonti nel 2003 durante il governo Berlusconi. E nell’altro del “fondo Boschi” del 2016, durante il governo Renzi. Ma avevano il pregio di separare le cose: da un lato la programmazione macroeconomica del triennio, dall’altro gli interventi più specifici.

In poche parole: se non puoi eliminare le “marchette”, allora teniamole fuori dalla sessione di bilancio.

Perché se invece vi rimangono, rendono più complicata la programmazione strategica e a lungo respiro che deve caratterizzare un bilancio della Repubblica.

O perlomeno dovrebbe.

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