Tutto quello che avreste voluto sapere sulla bufala dei “tagli alla sanità” e che non avete mai osato chiedere

Da diversi mesi ascoltiamo parlamentari, opinion-makers, giornalisti, conduttori televisivi e esperti del settore sanitario affermare che in Italia negli ultimi anni ci sono stati massicci tagli al finanziamento della Sanità, spesso e volentieri quantificati nella ormai famigerata cifra di 37 miliardi.

In otto domande e risposte, cerchiamo di scoprire – dati alla mano – come stanno realmente le cose.

  1. Quali dati prendiamo?

Il finanziamento statale del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), in modo da rispondere alla domanda “quanti soldi ci ha messo lo Stato?”.

Per rispondere invece alla domanda “come sono stati spesi questi soldi?” bisogna rivolgersi alle singole Regioni, che nel nostro sistema costituzionale sono responsabili delle scelte politiche e gestionali in merito all’organizzazione del servizio sanitario.

Analizziamo i dati dal 2000 al 2021.

Per gli anni dal 2000 al 2019 ci riferiamo al consuntivo (cioè quanto si è effettivamente speso).

Per l’anno 2020 usiamo i dati relativi agli stanziamenti effettuati durante l’anno in corso.

Per il 2021 utilizziamo invece la previsione del Disegno di Legge di Bilancio approvato dal Consiglio dei Ministri in ottobre.

  • Di quanto è stato tagliato il finanziamento alla Sanità?

La seguente figura (Fonte: Bilancio dello Stato) mostra l’andamento del finanziamento (in termini nominali), che cresce da 65,737 miliardi (2000) ai 121,487 mld previsti per il 2021, corrispondenti ad un aumento cumulato pari al 84,8% (se ci fermiamo al periodo pre-Covid – dal 2000 al 2019 – l’aumento è del 74,13%).

  • Questi dati però non tengono conto della dinamica dei prezzi. Quindi potrebbe darsi che – nonostante le risorse siano aumentate in termini nominali – abbiano comportato una perdita di potere di acquisto in termini reali.

Giusto. Allora ripetiamo l’analisi dividendo l’ammontare nominale per il deflatore del Pil, vale a dire la variabile che si usa per convertire le grandezze nominali in grandezze reali (fonte: database Ameco)

La seguente figura, quindi, mostra l’andamento del finanziamento (in termini reali), che mostra un aumento cumulato pari al 34,38% (se ci fermiamo al periodo pre-Covid – dal 2000 al 2019 .- l’aumento è del 29,44%)

  • Questo aumento in termini reali (+34,38%) è distribuito ugualmente in questi vent’anni?

No.

 La maggior parte dell’aumento (+31,3%) si è verificato tra il 2000 e il 2010, mentre dal 2010 al 2021 vi è un aumento estremamente contenuto (+2,34%) –  soprattutto a causa delle azioni di risanamento operate in alcune regioni dopo il commissariamento – che ci può approssimativamente far parlare di andamento costante in termini reali. Ma in ogni caso, anche limitando l’analisi al periodo 2010-2021, non possiamo assolutamente parlare di una riduzione delle risorse in termini reali.

  • Ma allora su cosa si basano coloro che continuano a parlare di tagli alla Sanità?

Alcuni su nulla, se non sulla irresistibile tentazione di diffondere menzogne al fine di fomentare una rabbia che giudicano funzionale ai propri interessi politici o di altra natura.

Altri confondono il termine “taglio” (= riduzione di risorse) con “mancato ulteriore aumento”.

Per fare un esempio: ipotizziamo che un determinato valore è quest’anno sia pari a 100 e si prevede che il prossimo anno aumenti a 110; in realtà, invece, andrà solo a 109.

In questo caso non vi è stato alcun taglio (ma anzi un incremento di 9), ma si può parlare di mancato ulteriore aumento pari a 1.

In questi anni, soprattutto dopo il 2010, è certamente accaduto che la dimensione degli incrementi triennali previsti non sia sempre stata rispettata.

Ma, appunto, si deve allora parlare di mancati ulteriori aumenti, non certamente di riduzioni di finanziamenti.

  • Alcuni – per sostenere la tesi dei tagli – utilizzano il rapporto tra finanziamento sanitario e Pil

In rapporto al Pil, il finanziamento della sanità ha conosciuto – per un numero molto limitato di anni – una riduzione di pochissimi decimali. E questo spiega perché coloro che intendono a tutti i costi sostenere la tesi dei tagli trovano particolarmente conveniente citare questo dato.

Ma il punto è un altro: il livello del finanziamento in rapporto al Pil è un indicatore corretto per giudicare l’adeguatezza di tale finanziamento?

In finanza pubblica, ad esempio, lo è senz’altro: non si usa mai il valore assoluto delle variabili, ma sempre il loro rapporto col Pil. Perché è evidente che vi è un legame diretto tra denominatore (il Pil) e il numeratore (il deficit, il debito, il gettito fiscale, ecc).

Prendiamo l’esempio delle tasse che si pagano: quanto più aumenta il reddito nominale (il denominatore) tanto più aumenta automaticamente – nella dimensione data dall’aliquota media – il gettito fiscale (il numeratore). Ecco perché quello che conta veramente – per capire quanto si viene “tartassati” – è il rapporto tra i due, chiamato appunto “pressione fiscale”.

Facciamo un esempio. Se Paolo paga 100 euro di tasse al mese e Anna 1.000, nessuno sarebbe tentato di dire che Anna è più “vessata” di Paolo. Tutti chiederemmo: “ok, ma quanto guadagnano al mese?”. E se Paolo ne guadagna 200 (= il 50% del suo reddito lordo se ne va in tasse) e Anna 5.000 (= solo il 20%), è chiaro a tutti che il più bersagliato dal fisco è lui, non lei.

Nel caso della sanità, l’adeguatezza del rapporto non è scontata. Credere che un paese stia spendendo “il giusto” solo se aumenta continuamente il rapporto tra finanziamento del sistema sanitario e Pil significherebbe, infatti, credere che la spesa sanitaria debba crescere più che proporzionalmente rispetto alla sola capacità di generare di reddito.

Torniamo all’esempio individuale, per capirci meglio (ipotizzando che non vi siano problemi di capacità di spesa da parte dell’individuo). Chi è convinto dell’adeguatezza di quell’indicatore, sostiene che se un mese il mio stipendio aumentasse di 100 euro, io debba aumentare la mia spesa sanitaria almeno di 101 euro. Altrimenti sarei ritenuto carente nella tutela della mia salute. Oppure, se l’anno prossimo il mio reddito aumentasse di 20.000 euro, dovrei spendere almeno 20.001 euro in più per curarmi, rispetto a quanto ho fatto l’anno scorso, altrimenti le persone direbbero che non sto prestando sufficiente attenzione alla mia salute.

Ma mentre è normale pensare che se guadagno di più, aumenta l’ammontare nominale di tasse che pago (e per questo motivo devo guardare al rapporto tra i due al fine di poter capire quanto sono vessato dal fisco), non è affatto ovvio che l’adeguatezza di quanto spendo per curarmi dipenda in maniera positiva e più che proporzionale da quanto ricco sto diventando.

Con tutte le accortezze che si devono avere quando si paragona variabili aggregate e variabili individuali, credo ci sia abbastanza materiale per farsi perlomeno cogliere dal dubbio che far coincidere l’adeguatezza dell’investimento in sanità con un rapporto sempre crescente tra finanziamento del servizio sanitario nazionale e Pil non sia, in realtà, la miglior cosa da fare.

  • Allora dobbiamo rassegnarci a guardare la spesa sanitaria in valore assoluto senza rapportarla a nessun’altra variabile?

Al contrario! Torniamo all’esempio di Paolo e Anna. Per giudicare se stanno spendendo una cifra adeguata ai loro bisogni, non si deve certamente guardare il loro reddito (sempre ipotizzando – per mantenere il parallelismo con i moderni meccanismi di finanziamento dei sistemi sanitari – che non possano trovarsi nella condizione di voler effettuare delle spese sanitarie senza averne la disponibilità), ma le necessità che hanno. Se Paolo ha una patologia cronica in peggioramento, è auspicabile che spenda sempre di più per curarsi, indipendentemente dal fatto che il suo reddito aumenti o diminuisca.

Quindi un paese, per giudicare l’adeguatezza del finanziamento del sistema sanitario, non deve guardare al suo Pil, bensì ai bisogni sanitari: invecchiamento della popolazione, quota di persone malate (e tipologia di malattie), indicatori di disagio sociale, incidenza delle malattie, necessità di prevenzione delle patologie, numerosità e adeguatezza delle infrastrutture sanitarie presenti, e mille altri ancora.

In poche parole, occorre usare i fabbisogni standard non solo per distribuire un dato livello di risorse (deciso spesso sulla base di una contrattazione politica tra Stato e regioni), ma per determinare quale quel livello debba essere.

  • E in Italia questo calcolo viene fatto?

No.

Alcuni dei parametri nominati nel punto precedente vengono utilizzati per suddividere le risorse del Fondo Sanitario Nazionale tra le regioni. Ma il suo ammontare totale, come già ricordato, è spesso frutto di una contrattazione di natura politica tra il Governo nazionale e le amministrazioni regionali all’interno della conferenza Stato-Regioni. E tale contrattazione, come tutti i processi politici complessi, spesso è influenzata da numerosi altri elementi o paralleli tavoli di trattativa, i quali non sempre hanno un diretto legame con i bisogni sanitari del paese.

Per questo la vera sfida per giudicare l’adeguatezza o meno del livello (o della dinamica) di finanziamento del servizio sanitario nazionale – se vogliamo affinare sempre di più gli strumenti di pianificazione e controllo di gestione nel settore pubblico – è rafforzare ed estendere la rilevazione dei fabbisogni su base scientifica, e utilizzarli correttamente nel processo decisionale pubblico.

Questo consentirebbe anche un’ambiziosa – e quanto mai necessaria – azione di controllo dei costi che le Regioni sostengono per l’acquisto dei materiali sanitari (il famigerato dibattito sul “costo della siringa”) e delle prestazioni da parte delle strutture private accreditate.

Un dibattito estremamente interessante, se qualcuno avesse voglia di farlo davvero.

CONCLUSIONI

Assieme ad un numero pressoché infinito di sofferenze, dolori e difficoltà di ogni tipo, la pandemia da Covid-19 ha anche comportato un surreale dibattito sull’esistenza di presunti tagli miliardari alla Sanità che sarebbero avvenuti negli anni scorsi.

Questo articolo – basato sui dati ufficiali – ha invece dimostrato che dal 2000 al 2021 (quest’ultimo dato è ovviamente di previsione) vi è stato un aumento nominale pari al 84,8% del finanziamento del servizio sanitario nazionale, che corrisponde ad un aumento in termini reali del 34,38% se teniamo conto della dinamica dei prezzi. È tuttavia vero che tale aumento reale è quasi interamente concentrato nel primo decennio (2000-2010), mentre nel secondo possiamo approssimativamente parlare di costanza delle risorse in termini reali. L’analisi non cambia sostanzialmente se ci limitiamo al periodo pre-Covid.

Ovviamente non esprimo alcuna opinione sull’adeguatezza di tale finanziamento perché, come argomentato, non sono convinto esista la strumentazione per poterla valutare in maniera appropriata O meglio, la strumentazione esisterebbe pure, ma finora la politica – come su altri temi –  se ne è tenuta ben lontana. Ma ciò non giustifica certo la diffusione di informazioni non corrette, soprattutto da parte di autorevoli protagonisti della vita pubblica o di operatori dell’informazione.

Io credo che le immense risorse (mediatiche e politiche) che in questi mesi sono impiegate nel continuare a diffondere la menzogna dei “tagli selvaggi” sarebbero estremamente più utili se indirizzate su due questioni alternative:

  1. Un’analisi di come le singole Regioni (e financo, all’interno di esse, le singole aziende sanitarie locali) abbiano speso questi finanziamenti crescenti.
  2. Uno sforzo politico per costruire – e usare – indicatori reali di adeguatezza del finanziamento del nostro sistema sanitario, basati su fabbisogni e costi standard, in grado di mettere i policy-makers nelle condizioni di combattere davvero le inefficienze e garantire il corretto utilizzo delle risorse pubbliche nell’interesse collettivo.

Sarebbe forse un modo più utile per fare gli interessi del Paese, io credo.

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