di Luigi Marattin per Strade Online
La politica si è riscoperta fisiologicamente incapace di avere lo stesso passo della comunicazione politica e della formazione del consenso. Di qui la nascita di movimenti politici che provano a forzare forme e contenuti della politica democratica, ma anche la tendenza della politica di governo a massimizzare l’impatto di breve periodo delle misure di politica economica, a discapito di misure a impatto più differito nel tempo.
Negli ultimi vent’anni sono accaduti due avvenimenti rilevanti per quanto concerne quantità e qualità del fenomeno democratico.
Il primo è la diffusione della democrazia stessa. Per la prima volta nella storia dell’umanità, dall’inizio del millennio più della metà della popolazione (il 55% nel 2015) vive in comunità politiche governate dallo strumento democratico. Tale percentuale era il 30% nel 1950 e meno del 10% all’inizio del Novecento.
Il secondo è la diffusione planetaria di Internet e di mezzi di informazione basati sulla rete (social media, blog, Internet tv), che hanno reso la comunicazione istantanea, non filtrata e del tutto incontrollabile.
Il secondo fenomeno è del tutto irreversibile. Il primo, ahimè, non lo è. E c’è chi comincia a pensare che tra i due vi sia un legame, cioè che le nuove modalità di comunicazione e informazione vadano in qualche forma a inficiare la quantità di democrazia, attraverso un deterioramento progressivo della sua qualità. I meccanismi attraverso cui questo avviene – o rischia di avvenire – sono essenzialmente due. Uno patologico, l’altro fisiologico.
Quello patologico riguarda la facilità con cui le nuove modalità di comunicazione politica e informazione hanno reso possibile la diffusione di notizie false o la manipolazione di notizie parzialmente vere. Questo fenomeno ha interessato tutte le principali consultazioni elettorali che si sono svolte nel 2016-2017 nei principali Paesi occidentali: le presidenziali USA e quelle francesi, il referendum sulla Brexit nel Regno Unito, il referendum costituzionale italiano. Da allora, il dibattito pubblico sembra essere impegnato in una improbabile spy-story sui presunti coinvolgimenti di potenze straniere più che sull’analisi delle cause e delle conseguenze del fenomeno stesso. E, conseguentemente, sui rimedi da adottare.
Il meccanismo fisiologico riguarda invece il sorpasso dei tempi della comunicazione politica rispetto ai tempi della democrazia stessa. Questi ultimi sono limitati dall’essenza stessa dello stesso processo democratico e dal suo intrinseco funzionamento; per quanto esso possa (e per certi versa debba) essere reso più efficiente e veloce – questo era, invero, lo scopo precipuo della riforma costituzionale del Governo Renzi – tali tempi sono perlopiù strutturalmente incomprimibili. Il necessario dibattito che precede e accompagna l’adozione della decisione, la sua approvazione negli organismi rappresentativi e la sua implementazione attraverso le strutture politiche e amministrative, richiede tempi che sono solo marginalmente influenzati dalla disponibilità delle nuove tecnologie.
Fino a qualche anno fa, questo non rappresentava un problema, perché i tempi della comunicazione politica e dell’informazione erano in linea con i tempi della democrazia, o non troppo più lenti di essi. Prima della diffusione capillare di Internet e dei nuovi media, l’arena pubblica entro la quale il cittadino poteva esercitare i suoi diritti di cittadinanza, facendo sentire la propria voce, erano o estremamente diradati (i sondaggi di opinione, oltre al voto) o molto poco accessibili (la partecipazione a un programma televisivo o una lettera a un quotidiano).
E il rapporto diretto rappresentato-rappresentante era sostanzialmente assente: per poter comunicare con un politico, un cittadino doveva prendere carta e penna, scrivere una lettera, imbucarla, e sperare che qualche componente dello staff non la cestinasse e gliela mostrasse. Adesso, ogni rappresentato con un telefonino può comunicare direttamente (e pubblicamente) col rappresentante con un tweet; e ogni notizia, vera o falsa che sia, viene diffusa all’istante e in modo potenzialmente incontrollabile in tutto il mondo, con effetti di ritorno in grado di modificare sensibilmente, e spesso in maniera non più invertibile, l’opinione del cittadino.
A sorpasso avvenuto, la politica democratica – paradossalmente proprio nell’era storica in cui governa la maggior parte degli abitanti del pianeta – si è riscoperta fisiologicamente incapace di avere lo stesso passo della comunicazione politica e della formazione del consenso. Ad aggravare ulteriormente questo mismatch, dobbiamo considerare l’accresciuto livello di complessità del governo della cosa pubblica. Che non è mai stato semplice, neanche nei tempi antichi. Ma il governo dei problemi del nostro tempo (decodificazione, analisi, rimedio), in una società divenuta – con l’affermarsi della globalizzazione e la completa trasformazione delle strutture economiche e sociali del lungo dopoguerra – incredibilmente più complessa, richiede da un lato più tempo e dall’altro un livello di conoscenze tecniche e approfondimento che non era necessariamente richiesto tre, quattro o cinque decenni fa.
Questo mix di fenomeni del tutto nuovi ha messo la politica democratica di fronte a una inadeguatezza a cui non era preparata: l’incapacità di conquistare e mantenere il consenso (motore primo immobile della democrazia) in una società che procede a una velocità a cui la politica non arriva né potrà mai arrivare. Ed è da questa inadeguatezza – e non da altro, a mio parere – che nascono le torsioni democratiche che cominciamo a vedere nei paesi occidentali. È da qui che nascono formazioni politiche che ambiscono più o meno velatamente a superare le strutture della democrazia rappresentativa come l’abbiamo conosciuta e a veicolare soluzioni semplicistiche – la cui comunicabilità è al passo con la velocità dei tempi – a problemi invece sempre più complessi. E il fatto che questa emergenza (la cosiddetta “ascesa dei populismi”) sia diventata tale solo dopo le vittorie o grandi affermazioni elettorali in molti paesi occidentali (USA, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Francia) non fa altro che dimostrare una volta in più il ritardo sui tempi della politica tradizionale rispetto alla stessa comprensione dell’involuzione dei meccanismi di formazione del consenso politico.
Ma il sorpasso dei tempi non ha solo determinato la nascita di movimenti politici che provano a forzare forme e contenuti della politica democratica per colmare questo divario. Ha anche condizionato la prassi di governo di chi rimane ancorato a una concezione della democrazia che vede nell’approfondimento e nella ricerca della (necessariamente complessa) soluzione reale ai problemi la stella polare dell’azione di policy, pur nella necessità di riforma del funzionamento delle istituzioni di cui ancora una volta il referendum italiano del 4 dicembre rappresenta croce e delizia. Tale condizionamento è avvenuto in due modi: la tendenza a cercare soluzioni sintetizzabili in uno slogan, in una card o – se va bene – in un tweet, e la tendenza (da sempre patologica nel nostro Paese) a massimizzare l’impatto di breve periodo delle misure di politica economica, a discapito di misure a impatto più differito nel tempo. Perché solo così si sta al passo con le nuove modalità di formazione e mantenimento del consenso dettate dai nuovi tempi della comunicazione politica e dell’informazione di massa. Solo così l’azione di governo acquista agibilità nella nuova arena in cui si svolge il confronto democratico. Quanto di veramente democratico ci sia in tutto ciò è probabilmente la più importante domanda dei nostri tempi.
Chi scrive è genuinamente convinto che l’azione dei governi del Partito Democratico degli ultimi quattro anni abbia provato con successo a combattere queste malsana tendenza dell’azione politica. Tra i tanti, cito una linea di policy specificatamente diretta a risolvere uno dei principali problemi strutturali della nostra economia: l’eccessiva dipendenza delle nostre imprese dal credito bancario. Per perseguire questo obiettivo, i governi PD hanno messo in campo almeno tre provvedimenti in un’ottica pluriennale: nel 2014 l’introduzione del voto plurimo e maggiorato (per rimuovere i disincentivi alla quotazione in Borsa di aziende a conduzione familiare), nel 2016 i Piani Individuali di Risparmio (per convogliare il consistente risparmio delle famiglie verso il capitale di rischio delle piccole e medie imprese) e nel 2017 il credito d’imposta per la quotazione in Borsa (per ridurre i costi connessi all’ingresso a Piazza Affari). Questa strategia contrasta tutto il distorto vademecum dell’azione politica sopra esposto: avrà effetti solo nel lungo periodo e per esporla non basta un tweet o un manifesto. Ma ciononostante, se avrà successo, avrà contribuito a risolvere parecchi problemi che il sistema-Paese si trascina da decenni: dall’insufficiente spesa in ricerca e sviluppo alla dimensione di impresa, dalla concentrazione del rischio di finanziamento alla scarsa produttività di sistema. Tutti nodi fondamentali per rendere la nostra economia più equipaggiata nel competere nel nuovo contesto competitivo globale.
Non a caso, però, le misure prese dal governo su questo argomento hanno avuto una scarsa o nulla penetrazione nell’arena del dibattito pubblico. Se si toccava il tema banche o mercati finanziari, erano ben altri i titoli di giornale, le aperture dei TG o – peggio ancora – le discussioni sui social.
Personalmente ho un’impressione e una certezza. L’impressione è che sarà sempre più difficile ricavare uno spazio di agibilità per una proposta politica ragionata, semplice ma non semplicistica, realistica ma genuinamente riformista e che riservi agli effetti di lungo periodo perlomeno la stessa attenzione che riserva a quelli di breve. La certezza è che solo in essa risieda l’unica speranza per non rassegnarsi al decadimento qualitativo della nostra democrazia. O a qualcosa di peggio.