La rivoluzione dei costi standard

di Luigi Marattin per Il Sole 24 Ore

Il dibattito sulla spending review si è sempre concentrato sul quanto, quasi mai sul come. L’attenzione su “quanto si taglia” è certamente cruciale, perché qualsiasi processo di revisione della spesa è inefficace se alla fine del percorso non produce risorse da destinare a scopi più proficui (nel caso italiano, investimenti e riduzioni di tasse). Tuttavia l’esclusiva attenzione al quanto – senza il come – può paradossalmente essere fuorviante: un dato risparmio può anche essere il risultato di un semplice e cieco taglio lineare. In quel caso, l’obiettivo principale della spending review (far funzionare la macchina pubblica meglio e a costi inferiori) fallisce, anche qualora si producano risparmi, che in quel caso, tra l’altro, difficilmente sono permanenti.
Il principale strumento tecnico per realizzare una spending review efficace ed efficiente è rappresentato dai costi/fabbisogni standard: misure standardizzate per determinare quanto un determinato servizio offerto dalla pubblica amministrazione “debba costare”, tenendo conto delle condizioni di contesto all’interno del quale il servizio è offerto. Negli ultimi anni il Governo ha intensificato l’utilizzo di questi strumenti, in tre comparti principali: enti locali, sanità e università.

In università la legge Gelmini e i suoi provvedimenti attuativi hanno definito il concetto di “costo standard per studente in corso”, che mira a definire quanto un singolo studente frequentante dovrebbe costare all’ateneo, tenendo adeguatamente conto della tipologia di corso di studi, delle dimensioni dell’ateneo e dei differenti contesti in cui opera. Ma è solo dal 2014 che i costi standard sono utilizzati per distribuire il fondo di finanziamento ordinario, per una quota pari al 20% (982 milioni) nel 2014, 25% (1,2 miliardi) nel 2015, 28% (1,3 miliardi) nel 2016.
In sanità si calcola il costo medio per abitante relativo alle tre tipologie di assistenza (sanitaria, distrettuale e ospedaliera) che si registra in tre regioni benchmark; tale misura di costo standard viene poi utilizzata per definire il fabbisogno di ciascuna regione. A partire dal 2013, i costi standard sono utilizzati per distribuire la quota indistinta, pari nel 2016 al 97,4% del Fondo sanitario nazionale.

Negli enti locali misure di efficienza sono state largamente utilizzate per ripartire i massicci tagli alle Province e alle Città metropolitane decisi dalla legge di Stabilità 2015. Ma il comparto su cui i fabbisogni standard stanno dando vita a una graduale ma inesorabile rivoluzione è quello dei Comuni. Dal 1977 in poi i trasferimenti a questo comparto sono sempre stati dettati dalla logica della “spesa storica”: anno dopo anno venivano semplicemente reiterati senza alcun riguardo al bisogno effettivo di quel Comune e alla sua capacità di farvi già fronte con entrate proprie. E quando nel 2010 è iniziata la stagione dei tagli massicci, il criterio della spesa storica ha avuto la sua naturale traduzione in quello dei tagli lineari, così massicciamente criticati. Dal 2015 una quota crescente dei trasferimenti ai Comuni (20% nel primo anno, 30% nel secondo, 40% nel terzo, 55% nel quarto e così via) è allocata – per quanto riguarda lo svolgimento delle funzioni fondamentali dei Comuni – sulla base della differenza tra i fabbisogni standard e la capacità fiscale. Vale a dire, se a un Comune – dato il contesto nel quale opera – serve più di quanto i tributi locali (calcolati ad aliquota standard uguale per tutti) possano garantire, allora intervengono i trasferimenti per perequare le differenze territoriali.

In questi giorni è in corso l’iter amministrativo del Dpcm che – per la prima volta con così largo anticipo – definisce i nuovi fabbisogni standard per il 2017, sulla base di una metodologia completamente nuova e volta a calcolare in modo più semplice e più efficiente il fabbisogno di ogni Comune, enfatizzando per la prima volta non solo la mera dimensione del costo, ma anche quella del livello di servizio offerto.
Da circa tre anni, quindi, i fabbisogni standard si stanno facendo gradualmente strada in tre comparti che rappresentano circa 120 miliardi di spesa pubblica. In tutti e tre i casi essi vengono utilizzati per distribuire un ammontare pre-definito (il Fondo di finanziamento ordinario degli atenei, il Fondo sanitario nazionale, il Fondo di solidarietà comunale). Questo significa che il loro utilizzo non comporta risparmi di spesa pubblica in aggregato, ma “semplicemente” una sua migliore e più efficiente distribuzione.

Non che questo non sia desiderabile. La teoria economica ci insegna che un’allocazione sbagliata delle risorse genera distorsioni e cali di produttività. Tuttavia, questo esperimento offre ai policy makers un potenziale scenario ancor più avanzato: se i costi standard venissero usati non per distribuire i fondi, ma per determinarne il livello, allora la situazione cambierebbe in misura considerevole. In poche parole, lo stanziamento non sarebbe deciso ex-ante e distribuito poi con il criterio dei costi standard; verrebbe, semplicemente, fissato al livello dettato dal costo standard stesso. In quel caso, è probabile che i risparmi di spesa sarebbero molto considerevoli. E difficilmente potrebbero essere contestabili, visto che essi si limitano a soddisfare il livello efficiente di fornitura del servizio.

Certamente si tratta di un’opzione teorica, che solo la politica può valutare con compiutezza e con responsabilità per un futuro più o meno lontano. Così come è vero che, se quella dovesse essere la prospettiva, probabilmente l’intera metodologia di calcolo del costo standard dovrebbe essere ulteriormente affinata, con la finalità di riuscire a cogliere davvero il “prezzo giusto”, e non una sua insufficiente approssimazione. Tuttavia, ormai da troppi anni, da più parti si lamenta l’assenza della vera spending review, quella che elimina chirurgicamente gli sprechi e fornisce risorse per scopi migliori. Sono in pochi, forse, a essersi accorti che lo strumento per realizzarla è già tra di noi da un paio d’anni.

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