Finanza locale, svolta in quattro mosse

di Luigi Marattin per Il Sole 24 Ore

In materia di finanza pubblica locale, le decisioni da prendere hanno spesso riguardato quello che sarebbe accaduto il giorno o la settimana dopo, oppure addirittura quello che sarebbe dovuto accadere mesi prima, ma che si era sempre rinviato.

Sarebbe bello invece se, per una volta, una discussione su una riforma strutturale (e permanente) della finanza locale nel 2016 potesse aprirsi e chiudersi nella prima metà del 2015. Ma in cosa potrebbe consistere tale riforma definitiva, in grado finalmente di chiudere l’eterno cantiere – aperto da 15 anni – della finanza locale?

Vale forse la pena riflettere su quattro fronti: tassazione immobiliare, vincoli di politica fiscale, semplificazioni normative e riforma dei trasferimenti.

Quello della tassazione immobiliare è il cantiere più evidente. Negli ultimi sette anni l’imposta locale immobiliare ha cambiato nome, funzionamento e destinazione di gettito una dozzina di volte, senza mai trovare efficienza e stabilità. Creare un unico semplificato strumento fiscale – il cui gettito andrebbe interamente lasciato ai Comuni – permetterebbe non solo di semplificare la vita al contribuente (tramite il bollettino pre-compilato), ma consentirebbe il confronto immediato tra le diverse politiche fiscali decise dai Comuni, cosa ora resa impossibile non solo dalla moltitudine di strumenti, ma anche dalla giungla delle aliquote e delle detrazioni. Insomma, il “pago, vedo, voto” più volte invocato negli ultimi vent’anni e mai realizzato.

Inoltre, lo scambio tra addizionale comunale Irpef (tributo sul reddito, ora attribuito ai Comuni) e Imu sui capannoni (tributo patrimoniale, ora allo Stato) permetterebbe di disegnare un sistema tributario nazionale in cui è chiaro “chi fa cosa”: tutte le imposte sul reddito allo Stato, tutte le imposte patrimoniali immobiliari ai Comuni, senza commistioni nè ambiguità.

Una volta sistemate le entrate, è cruciale chiedersi a quale sistema di vincoli di finanza pubblica debbano sottostare le amministrazioni locali. A molti sfugge che, in assenza di interventi normativi, il prossimo 1° gennaio entrerà in vigore un nuovo sistema di vincoli (articoli 9,10,11 e 12 della legge 243/12) introdotto forse un po’ troppo frettolosamente nel momento in cui si diede attuazione all’equilibrio strutturale di bilancio in Costituzione – principio invece sacrosanto. Tale nuovo sistema obbligherà gli enti a rispettare il pareggio nominale su ben otto saldi: tra spese ed entrate correnti e tra spese ed entrate finali. Ciascuno sia di competenza che di cassa e ciascuno sia a preventivo che a consuntivo.

Qualcuno spaccia tutto ciò per “superamento del Patto di stabilità interno”. Anche qualora fosse vero, c’è da chiedersi se sia davvero un così buon affare sostituire un vincolo con otto vincoli; alcuni di essi non solo sono di impossibile realizzabilità (si veda i vincoli di cassa), ma – il che è persino peggio – hanno poco o nulla a che fare con l’unica grandezza rilevante ai fini della finanza pubblica: l’indebitamento netto della pubblica amministrazione, la grandezza su cui si calcola il mitologico 3% di Maastricht.

Viene allora da chiedersi se non sia questa l’occasione per disegnare daccapo un sistema di vincoli di finanza pubblica che sia coerente da Bruxelles fino al più piccolo dei Comuni. Un doppio vincolo, parallelo a quello – con l’eccezione di quello strutturale, di impossibile applicabilità sui Comuni – che la Repubblica deve rispettare in sede Ue: uno sullo stock (il debito, rapportato alla popolazione) e uno sul flusso (l’esatta replica del deficit, traslata sui bilanci comunali). Così facendo, sarebbe immediato non solo verificare quanto ogni ente contribuisce al debito e deficit, ma sarebbe anche più facile fissare gli obiettivi, in relazione al principio “chi inquina paga”.

Se un sistema del genere fosse davvero implementato, potrebbe essere la pietra su cui costruire un nuovo patto tra livelli della Repubblica: autonomia (vera) in cambio di rigore estremo sul rispetto dei vincoli di cui sopra. Per essere brutali: niente più divieti su quante penne un Comune può acquistare, quante locandine può stampare o quanta formazione del personale può fare, ma anche niente più “sanatorie” per chi sfora gli unici due vincoli veramente importanti, lasciando agli enti libertà completa su come rispettarli.

Infine, occorre prendere atto che la perequazione non è più verticale: su 4,3 miliardi di trasferimenti che ricevono dallo Stato, i Comuni ne versano 4,7. In quest’ottica lo scambio è chiaro: niente più tagli lineari ai trasferimenti, ma in cambio entro cinque anni tutte le risorse devono essere allocate secondo uno schema di perequazione orizzontale: enti con fabbisogni standard (=necessità) superiori alla capacità fiscale standard (=possibilità di raccogliere gettito con aliquota media) ricevono risorse dagli enti che si trovano in situazione opposta. L’occasione sarebbe ghiotta anche per compiere l’ultimo – necessario – aggiornamento al calcolo dei fabbisogni, per evitare effetti residui distorsivi.

Nelle scorse settimane si è raggiunto un risultato importante: con il debutto di un meccanismo di ripartizione delle risorse che supera l’applicazione integrale del criterio della spesa storica che viveva sin dai decreti Stammati del 1977. La risoluzione di altri problemi contingenti è al momento allo studio del governo. Ma il comparto della finanza locale per troppo tempo è stato governato con un orizzonte temporale troppo corto, sempre rincorrendo l’ultima (o meglio la penultima) emergenza. Dimenticando che una corretta e definitiva sistemazione del modo in cui stanno insieme i livelli di governo di questa Repubblica è essenziale non solo per la sempre necessaria tenuta dei conti pubblici, ma anche per l’efficiente funzionamento della trasmissione della politica fiscale e della fornitura di beni pubblici.

È forse arrivato il momento di ideare, discutere e realizzare un disegno coerente e coraggioso di riforma strutturale, che chiuda finalmente l’eterno e precario cantiere della finanza pubblica locale e la renda un modello in Europa.

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