la mia intervista sul il Corriere di Bologna del 7 giugno 2025
«Altro che silenzio e oscu-ramento, questo è il referendum più discusso nella storia d’Europa». L’economista e deputato ferrarese Luigi Marattin, ex dem transitato da Italia viva fino alla nuova avventura del Partito liberaldemocratico, quasi storce il naso quando gli si chiede del voto referendario.
Domani voterà o da Ferrara andrà direttamente in Riviera?
«Vivendo a Roma casomai andrei a Fregene… Battute a parte, vado, ritiro la scheda sulla cittadinanza e voto “sì”. Le altre non le ritiro».
Non si sente in colpa nel non ritirarle?
«E una scelta legittima, citata più volte anche da chi oggi è assolutamente critico verso l’astensione. Ma la politica italiana è un posto strano: non votare va bene solo quando si tratta di un referendum sgradito, invece è una scelta legittima. Lo dice la Costituzione».
Che cosa non va per lei nei quattro quesiti referendari sul lavoro?
«Sono su temi che non c’entrano nulla con le attuali esigenze del mondo del lavoro, che ha altri problemi: gli stipendi bassi, la formazione, la contrattazione collettiva che non funziona più, il mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Nessuno dei quesiti referendari parla di questi problemi, sono solo un feticcio ideologico della Cgil e di tutta la coalizione di centrosinistra».
Un regolamento di conti con il passato, renziano, del Pd?
«Non mi piace quell’espressione, ma è indubbio che questi referendum sono il sigillo sul fatto che il Pd è diventato un’altra cosa rispetto a quello in cui militavo. Oggi è un partito di sinistra tradizionale appiattito sulla Cgil, non era così con Renzi e nemmeno con Veltroni. Si compie la trasformazione sancita con l’elezione a segretaria di Elly Schlein. Nulla di male, ma va chiesto ai riformisti del Pd che ne pensano».
Nell’area riformista guidata da Stefano Bonaccini le posizioni sono variegate anche in Emilia-Romagna: c’è chi vota cinque sì, chi tre sì e due no, chi quattro no e un sì.
«Pensano ancora una cosa a cui io non credo da anni, che sia possibile un compromesso tra l’opzione socialista e quella liberal-riformatrice. Se si guarda bene non c’è molta differenza tra i discorsi che in Forza Italia fa Marina Berlusconi, quelli che facciamo noi al centro e i riformisti del Pd.
Il problema è che si resta imprigionati in due schieramenti guidati da un lato dal sovranismo di Meloni e Salvini, dall’altro dal populismo della Cgil e di Schlein. I riformisti del Pd sembrano credere ancora alla possibilità di un compromesso nel partito, ma come fai a tenere insieme chi vuole abolire il Jobs act e chi lo vuole mantenere? Anche se vinci le elezioni poi governi 20 minuti, perché non riuscirai a fare leggi sul mercato del lavoro o sulla politica estera. Per questo ho fondato un partito, per dire smettiamola con un bipolarismo che non funziona più».
Crede che l’Emilia-Romagna, come scommettono Pd e Cgil, darà una buona spinta verso il quorum?
«Non lo so, so che nessuno di questi quesiti migliorerà per davvero la vita dei lavoratori, è una battaglia che reputo sbagliata».
C’è un quesito più sbagliato degli altri?
«Il primo. Si è detto che votandolo si abolisce il Jobs act e si torna al reintegro, ma non è così. Si torna alla disciplina Monti-Fornero che prevedeva il reintegro in pochi casi, come i licenziamenti collettivi, ma nessuno ormai dice che sono molto pochi rispetto al totale. Anche la Corte costituzionale ammettendo il referendum ha parlato di un “arretramento di tutela”, anche perché l’indennizzo diminuirebbe da un massimo di 36 mesi a 24 mesi. Il quesito su cui si è più concentrato il furore ideologico è quello che danneggerebbe di più i lavoratori».