la mia intervista del 29 aprile 2025 con Giuseppe A. Falci per L’Altra Voce – Il Quotidiano Nazionale
Luigi Marattin, parlamentare e co-fondatore del partito Liberaldemocratico: come sta cambiando l’assetto del risiko bancario alla luce della mossa di ieri fatta da Mediobanca che ha annunciato un’offerta pubblica di scambio sulla totalità delle azioni di Banca Generali?
«Dal punto di vista strategico è una reazione alla mossa di MPS sulla stessa Mediobanca; lanciata dopo aver vinto la battaglia sulla governance di Generali, dove gli “sconfitti” sono proprio quelli che – con qualche supporto governativo esplicito o implicito – stanno guidando MPS alla conquista di Mediobanca. Dal punto di vista industriale, viste le caratteristiche di Banca Generali, la mossa serve a consolidare la posizione di player nel settore del wealth management. Mentre nel caso di una fusione con MPS, le sinergie tra una banca d’investimento e una banca retail non sono apparse poi così chiare al mercato».
Da un lato c’è il governo che sostiene apertamente Delfin e Caltagirone nella presa di Mediobanca. Dall’altra Mediobanca mette in atto un’offerta di strategia industriale. Qual è dunque la vera posta in gioco: il primato nel settore bancario di alcuni capitani graditi al governo oppure il primato del mercato?
«Riesce difficile distinguere i due aspetti quando il governo assume un atteggiamento così palesemente interventista».
Ecco, qual è il ruolo del governo: arbitro o giocatore tattico?
«Il governo sta giocando al Grande Architetto della Finanza, con i soldi dei contribuenti (che sono ancora parte significativa di MPS). In Italia funziona così, non ci sono destra e sinistra. Governa da decenni il PUAM (Partito Unico Anti Mercato), che per esigenze televisive si divide in due curve ultrà chiamate convenzionalmente “destra” e “sinistra”. Vi è una storica tendenza a pensare che la politica debba guidare, orientare, decidere. Facendo, il più delle volte, disastri epocali, visto che in Italia il concetto di “pubblico” non equivale a “di tutti” bensì a “di nessuno”. È contro questo tipo di tendenza che abbiamo fatto nascere, poco più di un mese fa, il Partito Liberaldemocratico. Che non è per la giungla del mercato, ma solo per riconoscere che su queste vicende il potere pubblico deve intervenire solo tramite le autorità di regolamentazione, per evitare abusi di posizione dominante e garantire la tutela della concorrenza».
Cosa rappresenta oggi Mediobanca?
«Sono da tempo finiti i tempi del “salotto buono”: la globalizzazione ha spazzato via quelle dinamiche, e non sono tra quelli che se ne duole. Oggi Mediobanca è una bella realtà del private banking e della consulenza finanziaria che – come tante altre realtà italiane – ha bisogno di crescere su scala continentale per poter continuare ad avere un ruolo».
Possiamo dire che c’è un potere romano che vorrebbe fare una scalata sulla finanza milanese?
«In Italia soffriamo storicamente di un certo provincialismo, pensiamo che il mondo inizi a Lampedusa e finisca ad Aosta. Ma nel mondo globalizzato le dispute Roma-Milano (che sarebbe bene lasciare al calcio) non hanno nessuna rilevanza, né nessun vantaggio per il sistema-Italia».
Quello che colpisce è che non solo il rapporto Draghi ma tutti consiglierebbero operazioni oltre confine. Perché l’Italia è così restia ad aprirsi ad aggregazioni paritetiche con banche di altri paesi europei?
«Perché la politica in Italia ha sempre mirato a condizionare la finanza e servirsene per acquistare consenso e accrescere la propria sfera di influenza. Lo è stato fino a metà anni 90, quando le banche erano enti di diritto pubblico e per sapere chi era il nuovo amministratore delegato di un istituto non dovevi attendere l’esito di una selezione tra i manager migliori del mercato, ma le conclusioni dei congressi dei partiti della Prima Repubblica. E la stessa tendenza è rimasta anche successivamente. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostilità verso l’operazione Generali Investment Holding e Natixis. Due soggetti del risparmio gestito che tentano di fare esattamente quello che dice Draghi nel suo rapporto: creare economie di scala a livello europeo per contribuire a realizzare la tanto auspicata unione del mercato dei capitali e competere con i fondi USA, che ogni anno attraggono 300 miliardi del risparmio europeo oltre atlantico. Ad ostacolare l’operazione sono proprio coloro che ogni giorno si lamentano perché l’Europa non gioca da protagonista, non parla con una sola voce e tutti gli altri vuoti slogan che sentiamo da anni».
L’Italia è dunque ritornata agli anni ’90 quando si lanciavano offerte pubbliche di acquisto una dietro l’altra?
«Sono due fasi diverse. Negli anni ’90 il sistema stava uscendo dalla gestione pubblica, ora invece si tratta di realizzare un consolidamento efficace sul mercato interno. Che, è bene ricordarlo, non è quello italiano. Ma quello europeo».
E adesso veniamo alla questioni di politica interna. Giorgia Meloni sembra essersi ritagliata un ruolo internazionale ma in Italia fatica a imporre le riforme. Resisterà fino alla fine della legislatura o si farà logorare da Matteo Salvini?
«I motivi per cui Meloni non decolla in politica interna è semplice: ha costruito il suo enorme consenso, nel decennio 2012-2022, su temi e classe dirigente diametralmente opposti a quello che ora si rende conto essere necessario fare nell’Italia di oggi. E quindi si trova bloccata: come fa a fare le riforme di mercato con una classe politica cresciuta a pane e destra sociale e con i sovranisti di Salvini in posizione dominante? Comunque, per rompere questa coalizione avrebbe bisogno di qualcosa che oggi solo noi proponiamo: buttare a mare questo pessimo bipolarismo e riorganizzare completamente il quadro politico, con una nuova legge elettorale e con le riforme di sistema (in primis il monocameralismo) che attendiamo da 30 anni. Se avrà forza e coraggio di farlo, non lo so proprio».
In questo contesto di polarizzazione destra-sinistra, quale spazio politico può ritagliarsi una forza politica come il partito Liberal-democratico?
«L’area politica che crede ai concetti della concorrenza e del mercato, che vuole ridurre il peso dello Stato e non vuole saperne di schierarsi a supporto diretto o indiretto delle due curve ultrà di destra e sinistra in Italia vale circa il 15% potenziale. Ad oggi, tra i pochi attori rimasti in quest’area, non c’è nessuno che da solo è in grado di realizzare quel potenziale. Noi nasciamo non per candidarci a quel ruolo, ma per catalizzare un processo di “messa in gioco” di quel pezzo di Italia che oggi è scoraggiato e o vota “turandosi il naso” o non vota per niente. E per costruire un’offerta politica seria che alle elezioni del 2027 offra agli italiani una terza opzione rispetto alle due curva ultrà».