Ora Maastricht porrebbe il vincolo al 3,9%

di Luigi Marattin per Il Sole 24 Ore

La conferenza intergovernativa della Comunità europea che partorì i criteri che ancor oggi determinano i vincoli fiscali degli Stati membri si riunì a Maastricht il 9 dicembre 1991. Che cosa succederebbe se, quasi un quarto di secolo dopo e nel tentativo di dare nuovo smalto alle regole fiscali, i governi dei paesi Ue si ritrovassero proprio a Maastricht?

Come noto, il “numero magico” del 3 per cento del rapporto deficit/Pil non viene dal cielo, ma dipende esclusivamente da due ipotesi: il desiderio di stabilizzare in rapporto debito/Pil al valore medio dell’epoca (il 60%), e l’ipotesi che la crescita nominale del Pil sia tendenzialmente pari al 5 per cento annuo; valore, quest’ultimo, risultante da un’ipotesi di inflazione al 2 per cento come da mandato Bce, e una crescita reale del 3 per cento. Vediamo che cosa accadrebbe se questi valori macroeconomici fossero aggiornati a quello che poi è accaduto dall’introduzione dell’euro a oggi. I valori medi di inflazione e tasso di crescita reali dell’Eurozona dal 1996 al 2011 (escludendo l’outlier del 2009) sono stati pari a, rispettivamente, 2% e 2,3%; la crescita nominale è stata quindi pari al 4,3%, contro il 5% deciso nel 1991. La revisione del primo pilastro alla base degli attuali vincoli, quindi, condurrebbe a un limite al deficit più stringente dell’attuale 3% (circa il 2,6%). Per un dato deficit nominale, infatti, un minore tasso di crescita del Pil fa alzare il rapporto e quindi richiede una soglia più stringente. Ma a essere cambiato, in questi vent’anni, è anche lo stock medio del debito pubblico nell’area Euro, che invece spinge nell’altra direzione. Mentre all’inizio degli anni Novanta esso era pari al 60% del Pil, il valore del 2013 è 90,9%. Inferiore a quello di altre aree valutarie quali Stati Uniti (122,8%), Regno Unito (92,5%) e Giappone (236%), sebbene la Uem non sia un’unione fiscale come quelle economie.

Si potrebbe tuttavia obiettare che utilizzare la media aggiornata del debito (anziché quella, inferiore, di un quarto di secolo fa) equivarrebbe ad adeguare i propri obiettivi futuri a una performance deludente. È come se una squadra di atletica leggera composta da 18 membri il cui tempo medio di percorrenza dei 100 metri fosse stato in passato 10 secondi (e quindi tale fosse stata la soglia fissata per far parte della squadra) improvvisamente adeguasse la soglia a 15 secondi, perché tale ora è la nuova media dei componenti del gruppo. Non stiamo forse compromettendo la nostra capacità di migliorarci? L’argomento non è privo di un certo fascino. Se gli stati membri dell’Unione monetaria vent’anni fa riuscivano ad avere un rapporto debito/Pil al 60%, perché non possono riuscirci anche ora e in futuro? Tornando alla metafora, si può rispondere che da allora a oggi ci sono stati infortuni pesanti che hanno (forse irrimediabilmente) danneggiato le articolazioni e i muscoli non soltanto degli atleti della squadra, ma di tutte le formazioni iscritte al torneo. Pertanto può essere autorizzata una revisione al rialzo degli standard di ammissione. Anche perché, nonostante tutto, la nuova media di 15 secondi è ancora la più bassa tra tutte le squadre iscritte al torneo. Non è azzardato affermare che la globalizzazione negli anni Novanta, la Grande crisi negli anni Duemila e l’invecchiamento demografico abbiano rappresentato tre “infortuni muscolari” piuttosto rilevanti per gli “atleti” dell’eurozona e per tutte le economie concorrenti. La globalizzazione ha comportato un permanente sconvolgimento delle capacità competitive dei sistemi economici occidentali, con un conseguente aumento di domanda di protezione (costosa per le finanze pubbliche) per i fattori produttivi che durante o alla fine del percorso di ri-aggiustamento si sono trovati spiazzati. La Grande crisi ha impattato ancor più direttamente sui rapporti debito/Pil: sul numeratore ha influito la necessità di assorbire il debito privato in eccesso (causa ultima della crisi) e sul denominatore il calo del livello di attività economica strutturale dopo anni di sottoutilizzazione dei fattori produttivi. L’invecchiamento della popolazione, infine, ha posto in tutto il mondo una consistente pressione al rialzo sul costo dei sistemi di protezione sociale e sanitaria.

Il semplice aggiornamento dei dati su crescita nominale e debito ci riconsegna matematicamente un limite al deficit pari al 3,9%. Per l’Italia, ad esempio, si tratterebbe di circa 15 miliardi annui di spazio in più per aumentare la spesa o, preferibilmente, ridurre la pressione fiscale. Sebbene tale revisione non sia frutto di un generico e non motivato richiamo a “più flessibilità”, forte è il rischio che venga come interpretato come una resa a coloro che – sbagliando, dal mio punto di vista – vorrebbero sostituire le riforme sul lato dell’offerta a illimitati aumenti di spesa pubblica. Per costruire un pacchetto coerente e sostenibile, si potrebbe allora accompagnare tale aggiornamento dei criteri con una doppia novità, in grado di tracciare un percorso coerente:

Il secondo requisito del Fiscal Compact (la riduzione graduale del debito di un paese membro al valore medio del 60% al ritmo di un ventesimo l’anno, sancito all’articolo 4 del Trattato) è attualmente molto debole in termini di cogenza. Sia perché – a differenza del primo requisito, quello sul pareggio di bilancio strutturale – non ha valenza costituzionale sia perché l’attuazione pratica di questo criterio è in realtà stata ammorbidita da metodologie di computo tecnico molto favorevoli agli Stati membri. Si potrebbe pensare di renderlo vincolante (eliminando o riducendo queste agevolazioni di calcolo), ma precisando che la riduzione va calibrata rispetto alla nuova soglia del 90%, e non a quella vecchia. Se aggiorniamo la media del debito, in poche parole, usiamola davvero, e non soltanto quando ci conviene.

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